Da sempre palcoscenico di primissimo piano nel motorsport, il circuito di Monza ha regalato agli appassionati numerosi episodi da ricordare. Ecco una carrellata di cinque edizioni rimaste nella storia.
Sarà perché è “il” circuito italiano per eccellenza (i tifosi di Imola, Mugello e Vallelunga, soltanto per citare alcuni dei principali autodromi nazionali, non se ne abbiano a male: si tratta di un discorso puramente anagrafico, essendo stato allestito quasi un secolo fa); o per la vicinanza a Milano ed al “cuore storico” dell’automobilismo sportivo (leggi: Alfa Romeo). Il fatto è che ogni millimetro quadro dell’Autodromo di Monza “sa” di corse come pochi altri nel mondo.
Sono decine e decine, ed a mantenersi stretti, gli episodi memorabili che, dal 1922, sono stati raccontati lungo i poco meno di 6 km (10 se si considera l’Anello di alta velocità, capolavoro architettonico che contribuisce esso stesso a rendere immediatamente riconoscibile il complesso brianzolo). Centinaia se si facesse un elenco delle imprese che hanno fatto parlare di se fra le altre categorie (Turismo, sport-prototipo, GT, formule cadette) che oltre alla massima Formula si sono svolte – e, c’è da giurarci, terranno banco per un bel pezzo – a Monza.
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Mentre milioni di appassionati attendono il “fischio d’inizio” del weekend che culminerà con l’edizione 2020 del GP d’Italia di Formula 1, in programma domenica 6 settembre, ecco una carrellata di cinque Gran Premi d’Italia che per vicende sportive ed umane sono rimasti impressi a caratteri d’oro nel grande libro della F1 e di Monza in particolare.
GP d’Italia 1967: la rimonta-capolavoro di Jim Clark
Ogni pilota possiede “la corsa della vita” nel proprio bagaglio di ricordi e di imprese personali. Nel caso di Jim Clark, questa può essere identificata con l’edizione 1967 del Gran Premio d’Italia. Una corsa che non terminò con la vittoria finale (in una sorta di “grande incompiuta” che ne rende ancora più magnifica la vicenda in sé: un po’, per dire, come avvenne a Digione 1979 per Gilles Villeneuve; o a Monaco 1984 per Ayrton Senna). Il fatto è che a Monza ’67 lo “Scozzese volante” mancò per un soffio il trofeo del vincitore. Ma proprio per un soffio. Alla fine della gara giunse in ogni caso ottimo terzo.
Ma tanto grande fu l’impresa che, se non avesse vinto John Surtees al volante della magnifica Honda RA300, molto probabilmente il nome del vincitore passerebbe senz’altro in secondo piano. Jim Clark, autore della pole position, venne scavalcato immediatamente dopo il via da Dan Gurney, con l’inossidabile Jack Brabham in terza posizione e, a seguire, Graham Hill, Denis Hulme, Jackie Stewart, Bruce McLaren, Jochen Rindt e Chris Amon, solitario quanto valorosissimo portabandiera di una Ferrari che al GP di Monaco di quell’anno era rimasta orfana di Lorenzo Bandini. Gurney impresse alla corsa un ritmo subito elevatissimo; fu, tuttavia, proprio a causa di ciò che il motore Weslake della monoposto Eagle dell’ex Marine (ed ex ferrarista) rese l’anima.
Fu a quel punto che Jim Clark passò in testa, tenendosi ben distanziati Brabham, Hill e Hulme (in pratica le due Lotus e le due Brabham erano nelle prime quattro posizioni). Dopo tredici giri, l’improvviso afflosciarsi di uno pneumatico costrinse Jim Clark ad una inopportuna sosta ai box. Quando il due volte campione del mondo ripartì, si trovava ad un giro esatto di distacco dal gruppone dei primi. Inizia qui una delle pagine più avvincenti che l’intera storia del motorsport ricordi: un costante, instancabile, irresistibile “grande attack” da parte di Jim Clark, che da “doppiato” inanellò un giro più veloce dopo l’altro.
È vero che a Monza, e prima dell’introduzione delle varianti ad inizio anni 70 nella fattispecie, era relativamente semplice raggiungere medie sul giro particolarmente elevate: tutto stava a posizionarsi correttamente in scia e passare gli avversari al momento opportuno; ma ciò non toglie nulla alla grande impresa del fuoriclasse scozzese, che dimostrò una volta per tutte sangue freddo, calma, determinazione. Al 62. giro sui 68 previsti, Jim Clark tornò in testa, “sbarazzandosi” in un colpo solo di Jack Brabham e di John Surtees con la Honda nuova di zecca (era stata ultimata soltanto pochi giorni prima, e così è rimasta: esemplare unico, “vivo” ancora adesso), rispettivamente alla Parabolica ed alla “Curva Grande”, nel tripudio degli spettatori che vennero così ripagati dalla prestazione – piuttosto opaca, in verità – fornita dalla Ferrari di Chris Amon. È fatta: la vittoria è alla portata di mano di Clark protagonista di un inesorabile forcing. Nelle pieghe del destino di ognuno di noi è però scritto che ci sono episodi nella vita che non vanno come si sarebbe sperato.
In quel caso, a mancare per un pelo la vittoria. Proprio nell’ultimo giro di quella giostra infernale, la Lotus 49 di Jim Clark iniziò a singhiozzare. Benzina agli sgoccioli? Boh, sicuramente in quei frangenti Clark aveva altro cui pensare: prima di tutto, a portare al traguardo la vettura, telegrafando con l’acceleratore in modo da conservare ciò che restava del carburante. Surtees e Brabham passarono Clark, e conclusero la gara in prima ed in seconda posizione. “Jimmy” fu comunque ottimo terzo (piazzamento che in ogni caso venne da Colin Chapman salutato come una vittoria, come egli fece a suo modo, cioè gettando per aria il suo cappellino mentre la Lotus 49 tagliava la linea del traguardo). Ironia della sorte: fu un problema di pescaggio della pompa elettrica a rischiare di lasciare a piedi Jim Clark. Lo appurarono, dopo l’arrivo, i meccanici Lotus: il classico colpetto di cacciavite sulla pompa, ed eccola nuovamente “pescare” benzina.
GP d’Italia 1970: prima vittoria di Clay Regazzoni nel weekend triste per la morte di Rindt
Era già ben conosciuto fra gli “addetti ai lavori” e fra gli appassionati: Gian Claudio Regazzoni, “Clay” per i milioni di amici del motorsport, è – si può dire – assurto alle cronache internazionali in quel fatale 1970 consegnato alla storia per il titolo mondiale “alla memoria” assegnato a Jochen Rindt che proprio alla vigilia del GP d’Italia aveva perso la vita nel tragico incidente occorsogli in Parabolica durante le prove del Gran Premio. Impegnato su due fronti (in Formula 2, al volante della Tecno ufficiale, nel Campionato europeo, che vinse; e in Formula 1, al debutto assoluto nella categoria regina), Regazzoni aveva esordito nella massima Formula con la “magica” Ferrari 312B progettata da Mauro Forghieri: una monoposto completamente diversa dalle “312” che, nelle varie evoluzioni, erano state impiegate dal 1966 a tutto il 1969 e con alterne fortune.
Per di più, Clay – all’epoca “neo” 31enne: compì gli anni proprio nel weekend del Gran Premio, essendo nato a Lugano il 5 settembre 1939 – faceva parte di una nidiata di promettenti piloti dei quali molti si sarebbe parlato: Cévert, Fittipaldi, Giunti, De Adamich, Peterson, Stommelen, soltanto per citarne alcuni. Il via del GP d’Italia 1970 venne dato, sotto un sole abbacinante e di fronte a quasi 150.000 spettatori, senza le Lotus, ritirate da Colin Chapman in segno di lutto. Alla partenza, il più pronto a prendere la leadership fu Jackie Ickx, autore della pole position, che al volante della Ferrari 312B rimase in testa nei primi tre giri, seguito da Pedro Rodriguez (Brm), partito in prima fila, dalla March 701 di Jackie Stewart, iscritta da Ken Tyrrell, e dalle altre due Ferrari di Regazzoni ed Ignazio Giunti. Sul filo dei 230 km/h di media, il forte belga mantenne la testa per tre giri, per poi essere sopravanzato da Rodriguez e Stewart, i quali si scambiarono il comando della gara nei primi dieci giri. Il primo terzo di corsa vedeva fra gli inseguitori, nell’ordine, anche l’altra Brm di Jackie Oliver, la McLaren di Denis Hulme, la Brabham di Rolf Stommelen e la Matra di Jean-Pierre Beltoise. Il forte ritmo impresso alle monoposto provocò una serie di ritiri nelle posizioni “calde” della classifica: Rodriguez (noie al motore), lo stesso Jackie Ickx (frizione), Ignazio Giunti (surriscaldamento del motore). A difendere i colori di Maranello rimase Clay Regazzoni, che dopo il ritiro di Jackie Oliver (anch’egli a causa di un cedimento del motore) fu protagonista di un avvincente “testa a testa” con Jackie Stewart e Beltoise.
La mossa vincente del ticinese arrivò al 56. giro: giocando d’astuzia, Clay approfittò di un momentaneo “battibecco” fra lo scozzese della March (campione del mondo in carica) ed il parigino della Matra. “Fra i due litiganti, il terzo gode…”: ed eccolo agguantare il comando del plotone di monoposto. Gli ultimi giri videro Regazzoni prodursi in una serie di “temponi” per assicurarsi un adeguato margine di vantaggio sugli inseguitori. E quando la “Rossa”, dopo 68 tornate, superò la bandiera a scacchi da vincitrice, una folla di spettatori si riversò sulla pista, a salutare quella vittoria Ferrari che mancava dal trionfo di Ludovico Scarfiotti nel 1966. Ottenuta, per giunta, da un pilota che, sebbene non proprio italiano, parlava la nostra lingua. E per simpatia e comunicativa veniva già considerato “latino”.
1971: l’outsider Gethin al fotofinish in uno dei GP più veloci della storia
Quattro lunghi rettilinei e tre curve velocissime: le due di Lesmo, la Ascari e la Parabolica. Punto e basta: questo era il “layout” storico dell’Autodromo di Monza prima che, all’inizio degli anni 70, venissero “inventate” le varianti. Ciò avvenne per evidenti necessità di sicurezza, rese ancor più vistose dalle velocità sul giro delle vetture, che si elevavano anno dopo anno e rischiavano di rendere le corse a Monza rischiose e sempre meno interessanti. In effetti, “bastavano” tanto motore e un’aerodinamica “pari a zero” per tuffarsi in pista a medie elevatissime e sfruttare le scie per avere ragionevoli probabilità di portare a casa un risultato di rilievo. Fu, alla più semplice, quanto avvenne al Gran Premio d’Italia 1971: 55 giri condotti sul filo dei 245 km/h di media, tutti “in gruppone” e incollati l’uno all’altro per ottenere quei 2-300 giri in più per passare in testa.
Lo schieramento al via, quel 5 settembre 1971, segnalava l’assenza delle Lotus (l’eco di Monza 1970 non si era affatto esaurita), presente a titolo sperimentale con una monoposto 56B, affidata ad Emerson Fittipaldi, ed equipaggiata con il propulsore a turbina Pratt&Whitney, quattro ruote motrici e senza cambio di velocità. Assente era anche Jean-Pierre Beltoise, che scontava la propria squalifica comminatagli dalla Fia per l’incidente di gennaio durante la 1.000 Km di Buenos Aires che era costato la vita ad Ignazio Giunti. Al via, scattarono in testa Clay Regazzoni, Ronnie Peterson, Jo Siffert, Howden Ganley, Jackie Ickx, Chris Amon (che aveva ottenuto la pole position), Peter Gethin e Francois Cévert. I primi ad alternarsi al comando, nei primi quindici giri, furono Regazzoni e Peterson (March 711). Verso metà gara, a dover alzare bandiera bianca furono Jackie Ickx (Ferrari) ed il futuro campione del mondo Jackie Stewart. Da notare che il belga subì un’avaria analoga a quella che pochi giri dopo avrebbe messo fuori causa Clay Regazzoni: la rottura del parastrappi della frizione.
A giocarsi la vittoria rimase un plotoncino formato da Peterson, Cévert, Mike Hailwood (l’asso delle moto “Mike the Bike” avrebbe conquistato l’Europeo F2 nel 1972), Gethin, Ganley e Amon, sull’unica Matra-Simca. Per conoscere l’identità del vincitore, si dovette attendere l’ultimo giro; anzi, l’ultima curva: Peterson, arrivato in Parabolica in testa, affrontò il curvone un po’ “lungo”, quanto bastò per scomporsi un attimo, e permettere alla Brm P160 dell’outsider Peter Gethin di affiancarsi all’interno e, “tenendo” la vettura in uscita dalla Parabolica con due ruote sull’erba, battere – soprattutto grazie alla maggiore potenza del 12 cilindri Brm – sul filo di lana la March 711 di Ronnie Peterson, che terminò il Gran Premio “distanziata” di appena un centesimo di secondo dal vincitore. In terza posizione concluse la Tyrrell di Francois Cévert, con un distacco di 9 centesimi da Gehtin.
1979: l’ultima vittoria di Scheckter nel giorno del titolo mondiale e del grande ritorno di Alfa Romeo
Non c’erano storie: se il 1978 era terminato con il titolo mondiale a Mario Andretti ed alla Lotus “wing car”, il massimo trofeo doveva – imperativo – tornare, la stagione successiva, a Maranello. L’”abbinata” Ferrari si era rilevata vincente fin dalle prime fasi del Campionato, seppure inizialmente la Ligier avesse mostrato la migliore competitività. Gara dopo gara, tuttavia, la F1 1979 mise in luce l’ottima preparazione delle Ferrari 312 T4 portate in gara dal confermato Gilles Villeneuve e dal neo-acquisto Jody Scheckter, approdato a Maranello all’inizio di stagione a sostituire Carlos Reutemann che, dal canto suo, si era trasferito alla Lotus campione del mondo con Maro Andretti tuttavia “orfana” di Ronnie Peterson, deceduto in seguito all’incidente al via di Monza ’78 ed il cui posto era stato, in via del tutto provvisoria, preso da un pur positivo Jean-Pierre Jarier che in Canada ed a Watkins Glen aveva fatto cose egregie con una monoposto che non aveva in pratica mai guidato prima di allora. Scheckter e Villeneuve furono un abbinamento indovinato: rispettosi l’uno dell’altro in gara e amici al di fuori delle piste, costruirono gara dopo gara una “controffensiva” vincente nei confronti di Lotus, Williams, Ligier.
Alla vigilia di Monza, il sudafricano aveva nel proprio carnet due vittorie (Zolder e Monaco), tre secondi posti (Kyalami, nel GP “di casa”, Long Beach e Zandvoort), tre quarti (Jarama, Hockenheim, Zeltveg), un quinto posto (Brands Hatch) e un sesto (Interlagos). Un ruolino di marcia che vedeva Scheckter al comando con 44 punti, davanti a Jacques Laffite (36) e Alan Jones (34); quarto in classifica, in quel momento, era il compagno di squadra Gilles Villeneuve (32 punti). Per i distacchi, tutto poteva ancora succedere. Tanto che la trasferta monzese si preannunciò ricca di spunti agonistici, se non decisivi in ottica di Campionato come poi sarebbe effettivamente avvenuto. Da segnalare, fra gli eventi che hanno contribuito all’alone di storia del GP d’Italia 1979, il grande ritorno di Alfa Romeo: dopo tre stagioni come motorista Brabham, ed un paio d’anni di sviluppo, il “Biscione” fece il proprio rientro ufficiale, dopo ventotto anni, nella massima Formula. Al volante delle monoposto Alfa Romeo 179 progettate da Carlo Chiti, l’inossidabile Vittorio Brambilla (pilota letteralmente “di casa” a Monza, dove per di più rientrava con i postumi del serio incidente subito l’anno prima, nella tragica carambola alla partenza che era costata la vita a Peterson) ed il bresciano Bruno Giacomelli. Una scuderia tutta italiana (anzi: tutta… lombarda) su cui milioni di appassionati puntavano i propri riflettori.
Al momento del via, entrambe le Renault turbo di Jabouille e Arnoux (in prima fila) furono un po’ più lente. Ad approfittarne immediatamente fu Jody Scheckter, il quale tuttavia si vide subito dopo superato da René Arnoux. Nei propri specchietti, però, il sudafricano che lottava per il titolo seguiva con attenzione la Ligier di Jacques Laffite che lo tallonava inesorabile, tenuta a bada da Gilles Villeneuve. Primo colpo di scena al 14. giro: la rottura del turbo alla Renault di Arnoux diede via libera alla Ferrari T4 di Scheckter, seguita dalla gemella di Villeneuve. Nelle posizioni di rincalzo, gli spettatori seguivano con attenzione il procedere della Alfa Romeo di Giacomelli, che rimontò varie posizioni fino ad assestarsi al settimo posto, alle calcagna di Niki Lauda che guidava la Brabham motorizzata Alfa Romeo. Fra il due volte campione del mondo (con Ferrari) e l’arrembante bresciano la lotta si protrasse per alcuni giri, fino a che al 29. giro un’uscita di pista mise la parola fine alla cavalcata (comunque decisamente positiva) di Giacomelli. In cima al gruppo, le due Ferrari mantenevano la testa, seguite tuttavia da un minaccioso Jacques Laffite; più staccati c’erano Clay Regazzoni (Williams), Jabouille sulla Renault superstite, Niki Lauda, Mario Andretti, Jean-Pierre Jarier, Carlos Reutemann e Jackie Ickx (chiamato da Guy Ligier per sostituire Patrick Depailler che si era infortunato durante un volo in deltaplano), comunque poco incisivo. L’episodio che di fatto diede la vittoria a Ferrari avvenne al 42. dei 50 giri previsti: la rottura del motore Ford Cosworth alla Liguer di Laffite. L’ultima fase di gara fu una “cavalcata” mondiale per Scheckter, che si laureò campione del mondo, e Gilles Villeneuve ottimo secondo. A completare il podio, il mai domo Clay Regazzoni.
2002: vittoria di Barrichello nel giorno della “doppietta” Ferrari già campione del mondo
Imbattibile: la Ferrari F2002 disegnata da Rory Byrne, caratterizzata dall’adozione del sistema di trasmissione in fusione di titanio (un capolavoro sequenziale a sette rapporti a controllo elettronico), da un nuovo retrotreno che fece “invecchiare” di colpo la concorrenza ed equipaggiata con il V10 da 850 CV progettato da Gilles Simon, rappresentò il coronamento di un lungo costante percorso di evoluzione che a Maranello aveva preso il via nel 1996 e, di fatto, si sarebbe protratto fino al 2004. La stagione 2002 rimane scritta a caratteri cubitali nella storia delle competizioni per la parola “fine” ai giochi iridati arrivata nel pomeriggio del 21 luglio, al termine della vittoria di Michael Schumacher al GP di Francia (Magny-Cours) che consegnò al fuoriclasse tedesco il terzo alloro iridato consecutivo con Ferrari. Un titolo mondiale conquistato, dunque all’undicesimo dei diciassette Gran Premi di quella memorabile stagione 2002. Oltre al Campionato del mondo Piloti vinto da “Schumi” dopo il GP di Francia, al termine del Gran Premio di Ungheria le “Rosse” avevano conquistato anche il titolo Costruttori. E il 15 settembre, a Monza, andava in scena il GP d’Italia.
In pole position partiva lo scatenato Juan Pablo Montoya, con la prima delle due Williams-Bmw, davanti a Michael Schumacher; in terza posizione sullo schieramento, Ralf Schumacher sulla seconda Williams-Bmw; quarto posto in griglia per Rubens Barrichello e, via via, l’ex ferrarista Eddie Irvine (Jaguar-Ford), il duo McLaren-Mercedes Kimi Räikkönen e David Coulthard, Pedro de la Rosa (sulla seconda Jaguar-Ford), Jacques Villeneuve (BAR-Honda), Mika Salo (Toyota), e gli italiani Jarno Trulli (Renault) e Giancarlo Fisichella (Jordan-Honda). Al via, il più lesto fu Michael Schumacher, che tuttavia, vistosi “chiuso” da Montoya, dovette cedere momentaneamente; ad approfittarne (anche per un “taglio” di variante un po’ malandrino) fu Ralf Schumacher che terminò in testa il primo giro davanti a Montoya, Barrichello, Michael Schumacher, Räikkönen, Irvine ed allo scozzese della Toyota Allan McNish. Più avanti, Barrichello ebbe la meglio su Montoya, ed impresse alla corsa un ritmo sensibilmente più veloce, tanto da far sì che anche “Schumi” superasse il colombiano della Williams, che al 33. giro dovette poi ritirarsi a causa del cedimento di una sospensione. Gli ultimi giri furono “da parata”: le due Ferrari si misero in posizione per regalare ai tifosi un arrivo “in formazione”; ottimo terzo fu il simpatico Eddie Irvine; e in quarta posizione terminò Jarno Trulli.