Le “Rosse” guidano la classifica per vittorie Costruttori a Monza: alcuni successi hanno però un sapore epico che li rende “più” indimenticabili di altri.
“Vivere” l’Autodromo di Monza regala un’emozionalità unica. D’accordo: molti altri circuiti nel mondo (diciamo quelli “umani”, va’: forse, le strutture di ultima generazione, magari ben servite ma un po’ asettiche, non riescono a competere, per ricchezza di atmosfera, con quelli “storici”) possiedono un analogo alone di fascino. Per milioni di appassionati italiani, tuttavia, Monza è “la” pista. Quella più antica, quella che ha regalato decine di podi ai colori nazionali; è a un tiro di schioppo da Milano, vi si respira aria di corse come in pochi altri circuiti. Eppoi, è da settant’anni (e anche qualcosa di più…) terreno di caccia privilegiato per i ferraristi.
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Le “Rosse” mantengono la leadership di vittorie
Sebbene la prima parte di stagione 2020 non abbia detto granché bene a Ferrari, la storia non è per niente dello stesso avviso: dal 1950, i successi Ferrari al Gran Premio d’Italia ammontano a 19. Il primo della lista andò nel 1951 ad Alberto Ascari, sulla possente Ferrari 375 (e avrebbe replicato, con la “piccola” Ferrari 500 F2, nel 1952, la prima delle due “stagioni d’oro” per il milanese due volte campione del mondo); l’ultimo è storia recentissima: 2019, ad opera di uno strepitoso Charles Leclerc. L’immediata inseguitrice McLaren è ben lontana: 10 vittorie; segue, al terzo posto, Mercedes a quota 7. C’è dunque abbastanza tempo per sperare in un nuovo trionfo Ferrari al Gran Premio d’Italia prima che le monoposto di Maranello vengano “detronizzate” dalla pur arrembante concorrenza. Staremo a vedere.
Nel frattempo… leggiamo cosa racconta il grande libro di settant’anni di Formula 1 nel capitolo “Gran premio d’Italia” ed alla voce “Ferrari”. Spulciando fra le pagine, alcune ingiallite dal tempo, altre ben più fresche d’inchiostro, di successi memorabili del “Cavallino” a Monza, è facile imbattersi in vere e proprie perle. Autentici capolavori di preparazione e tattica di gara (ma anche, come vedremo, qualcosa che somiglia ad un miracolo, o per lo meno sembra possedere un “quid” di soprannaturale che mette quasi i brividi) che rendono una vittoria un po’ più speciale. Fanno felici i tifosi e suscitano ammirazione da parte degli avversari. Insomma, vengono ricordate più di altre. Eccone tre.
1966: “Grand’Italia” con la vittoria di Scarfiotti
Ci sono, nella vita di ciascuno di noi, quelle giornate nelle quali tutto fila per il meglio, come un meccanismo ben collaudato. Insomma, dove altro non si può fare che ben figurare. La classica “quadratura del cerchio” che peraltro non nasce dal caso, ma si determina dal felice incastro fra più condizioni: una preparazione meticolosa, una strategia favorevole, una collaborazione ottimale fra gli “attori”. Nel mondo delle competizioni, ciò si è verificato in più occasioni (vedi, tanto per citare alcuni degli esempi che calzano di più, il biennio dei due titoli mondiali di Alberto Ascari, l’epoca Schumacher, e – ultimo in ordine di tempo – lo strapotere Mercedes).
Il giorno perfetto
A metà degli anni 60, la perfezione conobbe una degna espressione nell’abbinata Colin Chapman-Jim Clark: il primo costruì una monoposto che per rivoluzionò le tecnologie in Formula 1; il fuoriclasse scozzese fu l’interprete principale – o meglio: i svariate occasioni il solista – che seppe trarre al meglio dalle monoposto di Hethel. Anche i migliori esecutori, ogni tanto, appaiono battibili: sarebbe ingiusto non approfittarne, tanto più se le condizioni di approccio al “palcoscenico” (cioè la pista) sono assolutamente adatte ad un posto in prima fila nel coro. È quanto avvenne il 4 settembre 1966, dove al Gran Premio d’Italia si svolgeva la prima gara iridata a Monza secondo la allora nuova formula che prevedeva motori aspirati fino a 3.000 cc, oppure sovralimentati ma con cilindrata limitata a 1.500 cc, e peso minimo di 500 kg. E fu un’apoteosi per Ferrari, nonché l’ultima vittoria di un pilota italiano a Monza. Da allora, siamo rimasti a bocca asciutta.
Le nuove Ferrari 312 a tre valvole
È anche doveroso ricordare quali furono le condizioni che portarono, quella domenica di inizio settembre del 1966, al trionfo tutto italiano a Monza: la richiesta (sarebbe meglio dire “l’obbligo”), maturata nelle settimane precedenti da parte di Enzo Ferrari, di realizzare “qualcosa di nuovo”. Nella fattispecie, un’inedita configurazione del V12 3.000 provvista di tre valvole per cilindro. Il “Drake” era convinto che le sue monoposto avrebbero così ben figurato a Monza. Fu un agosto di lavoro febbrile a Maranello, ma in capo ad un paio di settimane il nuovo propulsore era pronto.
Un capolavoro di tattica
I sorrisi, ma anche l’apprensione, si sprecarono ai box Ferrari nelle fasi che precedevano la partenza: Lorenzo Bandini aveva ottenuto la pole position, e accanto a lui – distanziato di tre decimi di secondo – partiva Ludovico Scarfiotti; in terza posizione, un gran brutto cliente: Jim Clark. Dietro a loro, John Surtees al volante della Cooper-Maserati (era freschissimo il divorzio da Ferrari), e al quinto posto c’era Bandini. Se Clark fosse scattato come suo solito, addio sogni di gloria: tuttavia, un magnifico scatto di Bandini – che fu subito in testa -, favorito in questo da Parkes e Scarfiotti, tenne a bada tanto Surtees quanto Clark. La sfortuna, però, ci mise lo zampino: già al secondo giro, Lorenzo fu costretto ad una lunga sosta ai box causata dall’allentamento del tubetto della benzina, e verso metà gara – dopo essere comunque riuscito a recuperare diverse posizioni – dovette abbandonare la compagnia.
La costruzione di una grande giornata
In testa, nel frattempo, si erano insediati Surtees e Jack Brabham, ma un serrato “pressing” da parte di Scarfiotti e Parkes faceva capire a tutti che le Ferrari, quel giorno, “c’erano” davvero. Brabham dovette ritirarsi per una perdita d’olio, così Ludovico Scarfiotti riuscì a guadagnare la leadership, sebbene tallonato dall’inossidabile Richie Ginther (ex ferrarista), che al volante della nuova Honda era riuscito a portarsi in seconda posizione, salvo poi finire fuori pista in Parabolica a causa dell’afflosciamento di uno pneumatico.
Immenso Scarfiotti, eccezionale Mike Parkes
La seconda metà di gara è giustamente rimasta nell’antologia delle grandi imprese sportive: Ludovico Scarfiotti era in testa, Bandini era stato costretto a ritirarsi; e, minaccioso, in terza posizione si profilava Denis Hulme, anch’egli a caccia di un risultato di rilievo anche perché rimasto unico portacolori Brabham dopo il ritiro del caposquadra. Occorreva difendersi con i denti, fare da guardaspalle; e questo ruolo venne magistralmente interpretato da Mike Parkes. L’ingegnere-pilota inglese fu abilissimo nel rintuzzare gli attacchi del neozelandese: una strategia che consentì al forte marchigiano (cugino di Gianni Agnelli) di trionfare a Monza.
1988: Berger e Alboreto omaggiano il “Drake”
No, non fu un miracolo, ciò che avvenne l’11 settembre 1988. A volte avviene così. Ciò che conta, e che rimane scritto, è il risultato. E l’”uno-due” Ferrari a Monza ’88 costituisce una delle pagine più belle, non soltanto per le “Rosse”, ma per l’intera Formula 1. La vittoria, quel giorno, andò a Gerhard Berger, ed in seconda posizione terminò l’indimenticato Michele Alboreto: un podio completato da un… “quasi italiano” (l’”americano di Roma” Eddie Cheever); in zona punti arrivò Ivan Capelli (quinto assoluto), il settimo posto fu appannaggio di Riccardo Patrese, e in nona posizione terminò Alessandro Nannini.
A un mese dalla scomparsa di Enzo Ferrari
Era, quel Gran Premio d’Italia, il primo appuntamento monzese senza Enzo Ferrari, che era deceduto il 14 agosto di quell’anno. Due settimane prima, a Spa-Francorchamps, entrambe le monoposto di Maranello si erano ritirate: Michele Alboreto per un guasto al motore, e Berger per problemi all’iniezione. Era chiaro che un risultato di prestigio avrebbe fatto del gran bene alla classifica (peraltro dominata dal duo McLaren Senna e Prost, vittoriosi in tutte le 11 gare che si erano fino allora disputate), ma anche all’umore in casa Ferrari “orfana” del “Drake”.
Pole position a Senna
Sembrava tuttavia che la musica, a Monza, dovesse essere quella di sempre: in prima posizione sulla griglia di partenza si installò Ayrton Senna, con Alain Prost in seconda posizione; la seconda fila era tutta per le Ferrari; seguivano le due Arrows di Eddie Cheever e Derek Warwick.
Una “grande mano” modificò l’assetto di gara?
A credere nel soprannaturale, potrebbe sembrare così. È chiaro che in realtà accadde ben altro; ma ciò che avvenne nelle fasi più concitate del Gran Premio d’Italia 1988 ha in ogni caso il sapore della favola. Di quelle a lieto fine, che fanno addormentare col sorriso i bambini. La prima metà di corsa era tutta per le due monoposto di Woking, che avevano per di più raggranellato un consistente vantaggio sugli inseguitori. Il pubblico si preparava alla solita trita passerella McLaren, quand’ecco che avvenne il primo colpo di scena. Al 35. giro, Alain Prost dovette ritirarsi a causa di un problema al motore. Le posizioni d’onore del podio (almeno quelle) erano dunque in mano a Berger e Alboreto: e un po’ di soddisfazione serpeggiava fra gli spalti e davanti a molte TV; un po’ come nel Totocalcio si rinunciava ad un ricco “tredici” e si faceva buon viso ad un consolatorio “dodici”. Ed ecco l’episodio-chiave di tutta la vicenda: mancavano appena due giri alla conclusione, quando Ayrton Senna , nel tentativo di sorpassare il doppiato Jean-Louis Schlesser, si urtò con il francese della Williams – che aveva sostituito l’infortunato Nigel Mansell – e finì fuori pista.
Miracolo a Monza
A quel punto, tutto fu chiaro: padroni del campo rimasero, perentoriamente, Gerhard Berger e Michele Alboreto (quanto ci manca!), i quali completarono l’ultimo scorcio di gara quasi appaiati, in una sorta di arrivo “in formazione” che regalò a Ferrari una nuova vittoria a Monza, a Maranello una storica doppietta (era dal 1979 che non avveniva) e il podio monzese a un italiano (anzi: milanese, tanto per far capire che a Monza c’era di casa): Michele Alboreto. D’accordo: dopo Monza, tutto tornò come prima, McLaren “padrona” del Campionato, alloro iridato a Senna, seconda piazza a Prost e titolo Costruttori a Woking. Ma quel giorno, a Monza, a fare il gesto dell’ombrello all’”armata” McLaren (anzi, a “mangiarsi il gelato tutto da soli”, per dirla come un grande monzese da pochissimo scomparso, il grande Tino Brambilla) furono le “Rosse”. E va bene, benissimo così.
2019: l’astro nascente Leclerc brilla sui 200.000 di Monza
Non era poi tantissimo che un pilota Ferrari non piazzava la zampata vincente a Monza: l’ultimo, in ordine di tempo, era stato Fernando Alonso, primo assoluto nell’edizione 2010 del GP d’Italia. Tuttavia, a milioni di appassionati la cinquina consecutiva infilata da Mercedes (quattro volte Hamilton, una – 2016 – Nico Rosberg) dava un po’ fastidio. D’accordo, il ruolino di marcia, nelle edizioni immediatamente precedenti, non era poi da buttare: nel 2018 Kimi Räikkönen era arrivato secondo, e Vettel buon quarto; nel 2015, il tedesco aveva conquistato la piazza d’onore; nel 2016 e nel 2017, “Seb” aveva terminato in terza posizione. Tuttavia, la vittoria è ben altra cosa. E non soltanto per motivi di punteggio. A Monza, poi…
In pole position a 21 anni e 11 mesi
Nei giorni che precedevano il Gran Premio, gli occhi del mondo erano puntati su Charles Leclerc. Che fosse molto bravo si sapeva, aveva avuto modo di dimostrarlo nella stagione di apprendistato in casa Alfa Romeo-Sauber. Due settimane prima di Monza, però, aveva vinto a Spa-Francorchamps: se Monza è il “Tempio della velocità”, la altrettanto storica pista delle Ardenne è per tutti “l’Università della F1”. Chi vince, in pratica, ottiene una laurea. E chi trionfa a Monza prende un Master in “Teologia delle competizioni”. È quello che sarebbe avvenuto nel pomeriggio dell’8 settembre 2019. Ma andiamo con ordine, procedendo per un attimo all’indietro. Il giorno prima, infatti, Leclerc aveva conquistato la pole position, regolando Hamilton per 40 centesimi e Valtteri Bottas per poco meno di mezzo secondo. A Vettel andò la quarta posizione sullo schieramento.
Parte in testa, ma deve difendersi dalle due Mercedes
Ciò che è avvenuto al GP d’Italia 2019 è cronaca quasi di oggi: Leclerc, scattato in testa, non si vide regalato alcunché. Anzi: dovette sudare le sette camicie per non lasciarsi sopraffare dal “forcing” di Hamilton e Bottas, dal canto loro intenzionati – e ci mancherebbe altro! – a non permettere che un altro Costruttore interrompesse la lunga striscia di vittorie a Monza; e ovviamente determinati a riprendere il pallino del Campionato dopo il precedente successo di Leclerc a Spa. Una “pressione” psicologica che, è lecito pensarlo, il giovane monegasco evidenziò in due piccoli episodi: nel 36. giro andò leggermente “lungo” alla prima variante (un “taglio” che tuttavia non venne sanzionato dalla Direzione di gara) e nella tornata successiva commise una leggera sbavatura, peraltro non particolarmente rischiosa ai fini di un eventuale pericoloso riavvicinamento di Hamilton.
Traguardo tutto per Leclerc
L’ultima parte di gara l’ha detta lunga sullo “stato di grazia” del 21enne Leclerc sul lotto degli immediati inseguitori. Al comando fino al traguardo, il monegasco concluse la propria cavalcata di 53 giri in 1h15’26″665, relegando Bottas in seconda posizione ad 8 decimi. Hamilton, che al 49. giro si era fermato ai box per il cambio gomme con l’obiettivo di agguantare il giro più veloce (missione compiuta) fu alla fine terzo, a 35″.