Fiat lascia Confindustria: le regole del gioco
Competitività, flessibilità, costi, da una parte. Tutele e diritti acquisiti dall’altra. In gioco la sopravvivenza dell’industria automobilistica.
Non si capisce il senso dell’uscita della Fiat da Confindustria se non si ragiona sul contesto nel quale si muove oggi un grande produttore di automobili.
I mercati ormai appartengono solo a produttori globali che si muovono nei diversi contesti di una competizione spasmodica, caratterizzata da enormi investimenti, forte competitività e corsa all’efficienza.
Sopravvivono solo quelli, pochi – non più di sei o sette secondo la profezia di Marchionne e le stime degli analisti finanziari specializzati – che riescono in questa grande complessità a gestire tutte le leve manageriali che realizzano risultati positivi.
Sapete che mi ero chiesto a suo tempo perché mai Fiat, l’impresa Fiat nel contesto planetario di cui parliamo, dovesse decidere di localizzare l’impianto produttivo di una pedina fondamentale come la nuova Panda proprio a Pomigliano, anziché in un paese europeo in cui i costi, ma soprattutto la gestibilità e la certezza della produzione presentasse minori conflittualità e viscosità.
Fiat ha insistito e, senza finanziamenti o aiuti pubblici di alcun genere, ha deciso di investire su Pomigliano ma con un nuovo contratto che garantisse la certezza della produzione.
Ha ripetuto l’operazione per l’impianto ex Bertone di Grugliasco ed ora per Mirafiori, mentre conferma il nuovo supermotore Alfa per Pratola Serra. Ma cosa è successo?
I contratti aziendali avevano ricevuto una tutela in deroga alla contrattazione nazionale lo scorso 28 giugno, con un accordo interconfederale, siglato cioè da tutte le organizzazioni sindacali, CGIL inclusa, in cui si riaffermava la centralità della contrattazione collettiva e della rappresentanza sindacale, ma con flessibilità sulle deroghe della contrattazione aziendale.
Lo scorso agosto l’art. 8 definiva la validità erga omnes dei contratti siglati a maggioranza dalle rappresentanze sindacali e la possibilità per le aziende di licenziare (e assumere) in deroga all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (1970!).
Alla sigla ufficiale dell’accordo di giugno, lo scorso 21 settembre, è stata aggiunta una postilla che suona “Confindustria, Cgil, Cisl e Uil concordano che le materie delle relazioni industriali e della contrattazione sono affidate all’autonoma determinazione delle parti”. Significa tradotto in italiano intellegibile che organizzazione del lavoro, ivi compresa la materia dei licenziamenti, a prescindere da quanto definisce l’art.8 in materia di regole di rappresentanza viene definita dalle parti sociali, cioè sindacati e Confindustria. E così siamo esattamente come prima.
Naturale che Fiat si senta presa in giro e tradita proprio da quella che dovrebbe essere la confederazione che la rappresenta. Di qui l’annuncio dell’uscita dal 1 gennaio 2012.
Dimenticate per un attimo se Marchionne vi è simpatico o antipatico, se è un manager illuminato o un cinico affamatore di popolo e restate sul tema. Può un’industria automobilistica mondiale, si chiami essa Fiat o in qualsiasi altro modo, essere player globale con efficacia se negli stabilimenti italiani ha vincoli, normativi, organizzativi e produttivi che la pongono fuori mercato?
La risposta è oggettivamente no e la, in buona fede o meno, mancanza di coscienza della realtà rischia di affossare definitivamente la possibilità di produrre con profitto nel nostro sciagurato paese.
Se ragioniamo ancora in termini di conflitto di classe e tutela dei diritti acquisiti, se ancora evochiamo, come ha fatto in modo sconcertante in un intervento televisivo qualche settimana fa un “imprenditore” come Diego Della Valle, debiti di riconoscenza che la Fiat (di trent’anni fà) dovrebbe avere (oggi) nei confronti del paese per aver ricevuto allora consistenti aiuti pubblici, siamo irrimediabilmente già fuori.
Peraltro circolano in questi giorni voci, inattendibili e ricorrenti ma verosimili, che evocano la vendita degli stabilimenti italiani e della stessa Fiat. Ma a chi? Perché un altro grande costruttore mondiale dovrebbe cacciarsi nel buco nero delle fabbriche italiane a regole invariate?
Qualcuno ipotizza che potrebbe farlo solo chi ha capitalizzazione ricca e necessità di essere più visibile in Europa, come i cinesi. Non mi pare verosimile, troppi rischi e poche garanzie e in ogni caso la “Fiat cinese” si affretterebbe a chiudere per prima cosa le fabbriche italiane e trasferire la produzione in quelle polacche o serbe o di un qualsiasi altro paese in cui produrre con flessibilità, certezza e a costi compatibili sia possibile.
Come può finire? Posto che comunque una qualsiasi imprevedibile nuova crisi finanziaria mondiale può cadere sulle nostre teste in qualsiasi momento travolgendo piani e mercati, si può solo sperare che il buonsenso e il realismo prevalgano, garantendo condizioni produttive meno pesanti, e che il piano industriale sia efficace, cioè i prodotti in uscita dal gruppo Fiat Chrysler nei prossimi due anni siano tanto competitivi e graditi ai mercati che tutto vada per il meglio nonostante la palla al piede degli impianti produttivi italiani.
Auguri a noi, tutti. Speriamo di farcela, ne va della sopravvivenza di un’industria automobilistica in Italia e forse non solo.
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