Dopo lo schiacciante successo del premier Boris Johnson, l’asset automotive è più che mai rivolto alle eventuali conseguenze dell’uscita UK dalla UE.
La netta vittoria ottenuta da Boris Johnson (il Partito conservatore ha ottenuto la preferenza in 363 seggi su 650), l’asset politico per il Regno Unito si fa, già da queste prime ore post-elettorali, via via delineato con chiarezza: l’uscita dall’Unione Europea al 31 gennaio 2020, cui per operarla a stretto giro di posta occorreva la “conditio sine qua non” della maggioranza assoluta “Conservative”, sembra dunque essere pienamente raggiungibile.
I termini di accordo con Bruxelles già entro fine anno?
Lo stesso Johnson ha assicurato che la Brexit verrà affrontata “Fino in fondo, dando un definitivo colpo di spugna a quanto avvenuto in questi tre anni”. L’obiettivo indicato dall’inquilino del 10 di Downing Street ‘è, appunto, uscire dalla UE entro il prossimo 31 gennaio. È chiaro che, con il risultato elettorale, il lavoro di Boris Johnson e dei membri del Partito conservatore può, ora, essere affrontato con più serenità: l’ostruzionismo delle altre forze politiche è, potenzialmente, arginabile con maggiore facilità. La timeline in merito alla presentazione dei termini di accordo con Bruxelles per l’uscita (in maniera ordinata, trovandosi di fatto scongiurata qualsiasi eventualità di Brexit “no-deal”) dell’Isola dall’Unione Europea sarà giocoforza piuttosto breve, potrebbe anche darsi che il dossier “nero su bianco” venga presentato già nei prossimi giorni, bell’e pronto per essere votato entro la fine di quest’anno.
Si auspica l’inizio di una fase transitoria
Quanto ipotizzato rimane, al momento, da considerare in linea teorica: è chiaro che le questioni sul tavolo ci sono, e dovranno essere prese in considerazione in modo da poterle affrontare contestualmente all’uscita del Regno Unito dall’”ombrello” UE. Il riferimento al futuro asset dei rapporti commerciali fra il Regno Unito e l’Unione Europea (o, più nello specifico, il dialogo fra Londra e Bruxelles) è tutt’altro che casuale: si auspica, a questo proposito, che entro il 31 gennaio vengano poste le basi per il “disco verde” (pronto a partire già il 1 febbraio) per una fase transitoria dei rapporti “al di qua” e “al di là” della Manica, in modo da accompagnare gradualmente il definitivo “stacco” dell’Isola dall’Unione Europea. Sebbene, tenuto conto della determinazione con la quale il primo ministro Boris Johnson è solito affrontare le questioni nazionali (oltre che sulla scorta della netta vittoria elettorale), non è scontato che da Downing Street non arrivi una “spaccatura” dei rapporti con Bruxelles già immediatamente dopo il fatidico 31 gennaio (eventualità che si preferisce indicare, anche se resta da vedere quanto effettivamente potrà giovare ad entrambe le parti), ciò su cui l’opinione pubblica internazionale di settore punta i propri riflettori è la situazione della filiera automotive di oltremanica.
Riflettori puntati sulla filiera
Il nocciolo della questione è rivolto ai dazi ed al ripristino (se avverrà) delle barriere doganali: se questi venissero applicati in ragione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, a soffrirne sarebbero, da una parte, i Costruttori che possiedono stabilimenti di produzione nell’isola, e che da lì ne esportano il prodotto al di qua della Manica; senza contare i tempi più lunghi di consegna delle parti staccate dalle aziende di fornitura europee verso le fabbriche UK. Una condizione, quest’ultima, particolarmente delicata in quanto il settore dell’industria (ed il comparto dell’auto non costituisce, ovviamente, alcuna eccezione) si basa su processi di approvvigionamento ed assemblaggio “just-in-time” sempre più stretti, nei quali cioè i componenti arrivano sulle linee di produzione anche pochi minuti prima che avvenga l’assemblaggio dei veicoli. In un approfondimento pubblicato in queste ore, Automotive News Europe cita, in effetti, una dichiarazione dell’amministratore delegato SMMT-Society of Motor Manufacturers & Traders (l’Associazione delle Case costruttrici e della filiera automotive UK), Mike Hawkes, il quale auspica che il nuovo Governo “Riesca a far sì che il settore non perda terreno in termini di competitività globale”; il che si traduce in una “Conclusione di accordi con l’UE che siano ambiziosi, mantengano il libero commercio e non diano adito ad attriti, per agevolare lo sviluppo e l’innovazione e raggiungere obiettivi ambientali condivisi”.
I Costruttori ci hanno già pensato
Alcune delle principali Case auto presenti nel Regno Unito (ci si riferisce, qui, ai “brand” più generalisti) hanno, in ogni caso, già allestito un “piano B” utile ad affrontare eventuali emergenze conseguenti all’uscita dalla UE: è il caso di Bmw e Toyota, tanto per citare due esempi; ancora prima, Honda aveva annunciato la chiusura (nel 2021) degli impianti di Swindon, sebbene in quella decisione, avanzata lo scorso febbraio, non vi fosse alcuna implicazione con eventuali conseguenze post-Brexit; Nissan ha, la scorsa primavera, optato verso la cancellazione dei programmi di produzione del SUV X-Trail a Sunderland; Ford, dal canto suo, aveva a giugno comunicato la propria intenzione di chiudere la propria fabbrica di produzione motori di Bridgend (Galles), seppure anche in quel caso i vertici dell’Ovale Blu avessero tenuto a dichiarare che tale decisione non era stata presa in funzione della Brexit, quanto sulla base di altri fattori (fra cui, va detto, il prossimo “stop” alla fornitura di motori per Jaguar Land Rover fissato per settembre 2020). La stessa Land Rover ha al momento in fase di esecuzione il trasferimento di parte della produzione in Slovacchia. Resta tuttavia “in sospeso” il futuro degli impianti Vauxhall (Ellesmere Port e Luton), che nell’estate 2017 – in seguito all’acquisizione di Opel – era passata “armi e bagagli” nell’orbita PSA Groupe dopo decenni di appartenenza a General Motors. I vertici francesi attendono lo sviluppo post-Brexit, tuttavia è da tenere conto della imminente fusione di Psa con Fca. Ci saranno conseguenze per lo storico marchio britannico? Staremo a vedere.