Durante un intervento in un programma televisivo Cbs, il fondatore dell’azienda californiana si è dichiarato pronto a rilevare almeno uno dei sette complessi industriali GM a rischio chiusura.
Pur se ufficialmente “ex numero uno” (in seguito alle recenti dimissioni in accordo con la SEC-Security Exchange Commission, ovvero l’organo di vigilanza dei mercati finanziari statunitense, che lo hanno portato ad allontanarsi per tre anni dal ruolo di chairman) del marchio da lui fondato, il vulcanico Elon Musk mantiene ben salda la presa sul futuro di Tesla. In queste ore, l’imprenditore di origine sudafricana torna a far parlare di se portando ad intravvedere una eventuale “successione” per gli impianti General Motors che il big player di Detroit, guidato da Mary Barra, ha nelle scorse settimane annunciato di voler chiudere in funzione di un piano di riassetto industriale: la “serrata” degli stabilimenti GM – sette complessi in totale – che comporterebbe un taglio di quasi 15.000 posti di lavoro e che ha fatto montare il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, su tutte le furie (e, a conferire alla vicenda un’impronta bipartisan, anche il senatore “dem” del Vermont Bernie Sanders).
La possibile dichiarazione di intenti “a parziale salvataggio” degli stabilimenti General Motors è stata dichiarata dallo stesso Elon Musk ai microfoni della CBS: durante un suo intervento nel programma TV “60 Minutes”, il fondatore di Tesla ha specificamente avanzato che “Qualora General Motors dovesse alienare uno o più dei suoi impianti, potremmo essere interessati a subentrarvi”.
È chiaro che in questo parere possibilista (a livello di ipotesi: all’atto pratico, non c’è nulla di concreto) sussiste, fra le righe, una velata volontà di voler aggiornare, ed estendere su più aree degli Stati Uniti e del Canada, le proprie linee di montaggio da riconvertire alla produzione dei veicoli elettrici con il marchio dell’azienda californiana. Del resto, il debutto definitivo della attesissima “compact” Tesla Model 3 è realtà, e dietro l’angolo c’è il lancio di una variante “entry level”, ovvero il modello da 35.000 dollari chiamato ad un ruolo di “traino” per il pieno sviluppo su larga scala del marchio di Palo Alto.
Elon Musk, dunque, appare tutt’altro che “appartato” dal punto di vista operativo: anche se costretto a lasciare la propria poltrona di “numero uno” Tesla alla manager di origine australiana Robyn Denholm, Musk detiene il 20% delle azioni Tesla. È, dunque, uno stakeholder di riferimento per Tesla, come d’altro canto ha tenuto a ribadire nel proprio intervento TV.
Ciò su cui il comparto automotive statunitense potrebbe ora puntare i propri riflettori, è l’acquisizione degli impianti General Motors che potrebbero essere chiusi in un’ottica a breve termine: ciò rappresenterebbe un po’ una nuova “vittoria di Davide contro Golia” (il marchio di nicchia che rileva stabilimenti di un colosso dell’industria), operazione peraltro non nuova nella giovane e già complessa storia dell’azienda californiana: basti pensare, a titolo di esempio ed incidentalmente collegata proprio allo stesso “big” di Detroit, l’acquisizione da parte di Tesla degli impianti del consorzio Nummi-New United Motor Manufactoring Corporation, già di proprietà General Motors (in virtù di una joint venture GM-Toyota) che l’aveva chiusa a fine 2010, ed acquistata da Tesla per una somma nell’ordine di 42 milioni di dollari. Il complesso di Fremont (California) venne, dall’azienda fondata da Elon Musk, riqualificato e riconvertito per diventare la prima Gigafactory Tesla. Con questa operazione, furono man mano reintrodotti i dipendenti che in precedenza formavano la forza lavoro Nummi, arrivando peraltro a superare in quantitativo il numero di addetti all’epoca del controllo General Motors.