A 50 anni dall’incidente di Goodwood che gli costò la vita, i vertici McLaren e la figlia Amanda ne ricordano le imprese e inaugurano una statua.
C’è una frase che da lungo tempo corre di bocca in bocca fra gli enthusiast di motorsport: “La vita si misura nei risultati, non soltanto negli anni”. A coniare questa massima fu Bruce McLaren, “enfant prodige” nelle competizioni – debuttò al volante di un’auto da corsa nel 1952, ad appena quindici anni; a diciannove anni era in F2; a ventun anni esordì in F1 e a ventidue anni (1959) vinse il suo primo Gran Premio, successo che per molti anni gli valse il titolo di più giovane vincitore di un GP – e giovanissimo “patron” di una propria struttura: il McLaren Racing Team, da lui fondato nel 1963 (a ventisei anni, dunque) e in capo a pochi mesi evoluto in Casa costruttrice vera e propria.
La commemorazione a Woking
Una carriera “a tappe bruciate” al di qua e al di là dell’Oceano per il campione neozelandese di Auckland, dove era nato il 30 agosto 1937, e che scomparve a 32 anni in un tragico incidente, avvenuto a Goodwood il 2 giugno 1970 mentre era impegnato in una sessione di test al volante della nuova McLaren M8D in configurazione evoluta rispetto ai modelli 1968 e 1969 ed attesissima al debutto della serie Can-Am 1970 (14 giugno, a Mosport Park in Canada). A commemorarne la figura di carismatico pilota-costruttore, accanto ai vertici dell’azienda, Amanda McLaren, unica figlia di Bruce e Patricia Broad (scomparsa nel 2016) e “brand ambassador” di McLaren Automotive, che ha tolto il velo ad una statua a grandezza naturale del fondatore, installata presso il MTC-McLaren Technology Centre di Woking, mentre tutto intorno ad una McLaren M8D del1970 in esposizione presso il medesimo quartier generale della factory sono state accese cinquanta candeline.
La figlia Amanda: “Un’eredità sempre viva”
“Il 2 giugno è sempre un appuntamento emozionante per noi, e lo è ancor di più quest’anno – ha dichiarato Amanda McLaren – Averlo, ora, ‘osservare’ la sede del Racing Team da lui originariamente creato è commovente; so che sarebbe stato orgoglioso dei risultati raggiunti in suo nome”. “Quando mio padre morì nel 1970 – prosegue la figlia di Bruce McLaren – soltanto dodici anni dopo essere approdato nel Regno Unito dalla natia Nuova Zelanda, aveva già ottenuto molti risultati quale giusto riconoscimento al proprio enorme impegno. Tuttavia, il meglio doveva ancora arrivare. Più di quarant’anni di successi in F1, tre vittorie alla 500 Miglia di Indianapolis, cinque titoli Can-Am consecutivi, la storia vittoria alla 24 Ore di Le Mans 1995 e la più recente lineup di supercar e hypercar progettate nella ‘nuova generazione’ di Woking ma sempre sotto lo stemma McLaren rappresentano la sua eredità”.
In pochi anni, dalla Nuova Zelanda ai vertici del motorsport
Figlio d’arte (il padre Leslie “Les” McLaren era proprietario, insieme alla moglie Ruth, di un garage con annessa stazione di servizio a Remuera; ed era un appassionato di motorsport), Bruce McLaren respirò quindi fin da subito l’aria dell’officina. Ed ebbe, già in tenera età, modo di mettere in evidenza una straordinaria determinazione: ammalatosi da bambino del morbo di Legg-Calvé-Perthes, e nonostante il parere dei medici che temevano che fra le conseguenze della malattia potesse esserci quella di non riuscire più a camminare, rimase in trazione per più di due anni, per riuscire a riacquistare l’uso degli arti (sebbene una leggera zoppìa lo avrebbe poi accompagnato per il resto della sua vita). Una vecchia Austin Seven “Ulster” di anteguerra, acquistata dal padre e messa nuovamente in condizione di poter correre, fu la vettura che nel 1952 contrassegnò il debutto agonistico di un giovanissimo Bruce McLaren.
I passaggi successivi videro il baby-pilota neozelandese al volante di, rispettivamente, una Ford Ten, una Austin Healey (tutte da lui preparate, anche in virtù degli studi superiori tecnici che aveva nel frattempo intrapreso); il debutto in monoposto avvenne, nel 1957, con una Cooper-Climax di Formula 2. La sua competitività venne notata da Jack Brabham, e dagli organizzatori del contest “Driver for Europe” finalizzato all’individuazione di giovani piloti neozelandesi particolarmente promettenti da inviare in Europa per formarsi un consistente bagaglio di esperienza. Primo vincitore fu, appunto, Bruce McLaren che, nel 1958, approdò – praticamente senza un soldo – nel regno Unito e, nella fattispecie, alla corte di Charles e John Cooper per i quali iniziò a correre e vi sarebbe rimasto sette anni, totalizzando quattro successi in F1.
Il resto è storia ben nota: la fondazione della scuderia McLaren Motor Racing Ltd, il suo impegno parallelo con Cooper (marchio che lo vide per un’ultima volta vincitore al GP di Nuova Zelanda 1965), la “storica” vittoria alla 24 Ore di Le Mans 1966 in coppia con il connazionale Chris Amon (impresa recentemente messa sul grande schermo dal bel film “Le Mans ’66-La grande sfida”), l’evoluzione del Racing Team in una struttura a ben più ampio respiro – F1, F2, Can-Am, Indianapolis anche in virtù della (previdente) apertura di una “filiale” nei dintorni di Detroit per essere presente, con più comodità, nel ricchissimo (in termini di tornaconto economico) mondo delle competizioni americane -; l’amicizia con lo stesso Jack Brabham così come con Chris Amon e Denny Hulme. Ed una continua, instancabile volontà di evolversi continuamente. Fino al vigliacco incidente di Goodwood, quel 2 giugno 1970 commemorato dai vertici di Woking ed al quale hanno idealmente preso parte milioni di enthusiast di storia delle corse.
Zak Brown: “Enorme esempio sportivo e di vita”
“Un pilota ma non soltanto questo: un leader e un grande innovatore; tutti noi, qui a Woking, puntiamo ogni giorno a perseguire l’esempio sportivo e di vita che Bruce McLaren ci ha lasciato – dichiara Zak Brown, amministratore delegato McLaren – Il suo spirito vive attraverso tutte le persone che oggi lavorano in McLaren, in suo onore e sempre alla ricerca del meglio”.